venerdì 4 dicembre 2020

VIVERE IN CONDOMINIO. Editoriale pubblicato sul Bollettino dell'Ordine dei Medici e Chirurghi della Provincia di Perugia n 3/2020

  VIVERE IN CONDOMINIO

 

L’estate 2020 sarà ricordata per tanti motivi: la pandemia con i suoi  negazionisti e i suoi terroristi, in spiaggia con la mascherina, il caldo e anche per la “rivoluzione” nel territorio dal punto di vista sanitario di cui però pochi se ne sono resi ancora conto.    

Il cosiddetto Decreto Rilancio del 14 luglio, infatti, ha sancito la nascita dell’infermiere di famiglia o comunità, mentre un emendamento del cosiddetto Decreto Calabria del 24 giugno ha istituito la figura dello psicologo delle cure primarie.

Per un fautore dell’approccio complesso e sistemico come me,  l’istituzione di due figure così importanti non può che essere apprezzata e condivisa. Oramai la complessità della patologia cronica può essere affrontata solo con competenze multidisciplinari e con un’operatività che non può esulare dall’intervento  nel territorio di più operatori. E’ da quando ho iniziato la mia attività professionale, alla fine degli anni’70, che sento parlare di rete assistenziale e di integrazione dei ruoli, ma il più delle volte sono rimasti dei concetti teorici che quasi mai si è riusciti a realizzare nella pratica quotidiana. Sarà questa la volta buona? Cerchiamo di capire meglio quello che recitano questi decreti legge.

“…L’infermiere di famiglia e comunità è un professionista responsabile dei processi infermieristici in ambito familiare e di comunità, con conoscenze e competenze specialistiche nelle cure primarie e sanità pubblica.
Il suo ruolo è quello di promuovere salute, prevenzione e gestire nelle reti multiprofessionali i processi di salute individuali, familiari e della comunità all’interno del sistema delle cure primarie.
Risponde ai bisogni di salute della popolazione di uno specifico ambito territoriale di riferimento (distretto) non erogando solo assistenza, ma attivandola e stabilendo con le persone e le comunità rapporti affettivi, emotivi e legami solidaristici che diventano parte stessa della presa in carico
.”

Certo! Si tratta di una definizione ambiziosa che deve essere valutata positivamente. Dietro questa definizione, infatti, si sviluppa tutta una visione moderna della medicina che gestisce la patologia cronica con un monitoraggio continuo che va dalla telemedicina, al teleconsulto, al contatto diretto. Si può sviluppare la possibilità di una medicina proattiva che intervenga prima che un fattore di rischio sviluppi una malattia vera e propria, che sia capace di modificare gli stili di vita e di intervenire se occorre anche nell’ecologia di una comunità.

Anche lo psicologo del territorio non scherza. ”..La mission della psicologia di cure primarie è la garanzia del benessere psicologico di qualità nella medicina di base, sul territorio, vicino alla realtà di vita dei pazienti, alle loro famiglie e alle loro comunità, fornendo un primo livello di servizi di cure psicologiche, di qualità, accessibile, efficace ed integrato con gli altri servizi sanitari, caratterizzato dunque anche da costi contenuti e contraddistinto da una rapida presa in carico del paziente.
Un sistema di cure primarie utile ed efficace presuppone che l’attenzione alla componente psicologica della salute è fondamentale, e non si tratta solo di offrire cure al disturbo psicologico, o di trattare il problema individuale, occupandosi del benessere e della salute psicofisica dei cittadini di un territorio, dei membri di una comunità, in modo equo e accessibile, per fornire a tutti indistintamente cura e terapia, ma anche per promuovere consapevolezza, promozione di salute, e adozione di comportamenti positivi, rispondendo, inoltre  a quattro grandi problemi:
1. Intercettare e diminuire il peso crescente dei disturbi psicologici della popolazione, costituendo un filtro sia per i livelli secondari di cure che per il pronto soccorso;
2. Intercettare i bisogni di benessere psicologici che spesso rimangono inespressi dalla popolazione;
3. Organizzare e gestire l’assistenza psicologica decentrata rispetto ad alcuni tipi di cura;
4. Realizzare una buona integrazione con i servizi specialistici di ambito psicologico e della salute mentale.

 

 

 

Anche qui troviamo tutta la potenzialità per poter soddisfare la presa in carico  globale della salute dei nostri pazienti , gestendo noi la componente organica e lo psicologo la componente psichica.

Sarà possibile pertanto l’approccio complesso ai nostri pazienti,  aumentare l’aderenza ad una dieta, far smettere di fumare e aiutarli a superare disturbi depressivi ed ansiosi o, se vogliamo essere riduzionisti, avremo finalmente la possibilità di “stanare” ed inchiodare alla propria responsabilità esistenziale tutti gli ipocondriaci che affollano i nostri studi facendogli capire la vera natura dei propri problemi.

Tutto rose e fiori? Certamente no! Come il solito, fra il dire e il fare c’è in mezzo il mare, come recita un vecchio proverbio e l’obiettivo di questo editoriale è proprio quello di far riflettere sulle immancabili criticità che si presenteranno.

Affrontiamo  subito quello che riguarda la nostra posizione di medici di famiglia! Ragionando in casa nostra! Già me lo immagino i mugugni, le ritrosie, i dubbi, se non un vero e proprio ostruzionismo che immancabilmente scatterà da parte nostra: retaggio di un’abitudine al non confronto, a vivere in maniera autarchica pensando di essere gli unici protagonisti della gestione del territorio. Qui ci sarà molto da lavorare nel far superare la diffidenza iniziale, come è stato per la medicina di gruppo, per le aggregazioni professionali della Medicina Generale, per l’introduzione e l’uso dell’informatica. Ci si dovrà rimboccare le maniche, insomma, e tutti coloro che sono preposti alla formazione dovranno lavorare in prima persona per spingere la Professione a quello che è il processo più difficile: il cambiamento.

Quando parlo di formazione credo di affrontare quella che è la prima criticità e non solo della Medicina Generale, ma in particolar modo della istituzione che per antonomasia è predisposta alla formazione: l’Università. Ci proverà questa ad evolversi e a formare non solo medici con approccio specialistico, ma capaci di integrarsi con i vari ruoli che dovranno poi rivestire? Credo che una profonda riflessione dovrà essere fatta perché ogni volta che un laureando o un neolaureato entra nel mio studio per l’abilitazione all’esercizio della professione mi rendo conto come ancora siamo veramente lontani.

I soldi? Le risorse ci sono? Anche questa è una grande criticità. Ovviamente non sono in grado di rispondere, ma dalla lettura dei decreti legge si desume che con l’intervento di queste due nuove figure si dovrebbe avere un risparmio in quanto è di fatto un investimento sulla prevenzione e per quanto riguarda poi gli psicologi, esistono studi che dimostrano come ci sia una maggiore appropriatezza nell’accesso alle cure e quindi un risparmio. Con questi ultimi poi c’è un passaggio nel testo del decreto che non ho ben capito:”… prevede esclusivamente che quando il medico di famiglia vuole aumentare il suo massimale di assistititi si può giovare dello psicologo.” Aspettiamo pertanto che arrivino delucidazioni autunnali per recepire meglio cosa significhi.

Volevo proseguire sugli eventuali scenari e sulle ulteriori criticità che potrebbero intervenire oltre al problema  reciproco della formazione e delle risorse necessarie.

Senza dubbio un grosso problema prevedo che sarà il conflitto generazionale fra noi medici generali,  per la maggior parte ultracinquantenni, con infermieri e psicologi probabilmente molto più giovani! Questo visto in positivo potrebbe essere invece una risorsa. Si pensi al nostro bagaglio esperienziale come potrebbe aiutare l’entusiasmo e lo slancio di chi inizia, però i tempi di attuazione e della messa a regime in Italia dei DL  farà si che la maggior parte di noi vecchietti sarà in pensione.

Voglio addentrarmi in ulteriori riflessioni  in merito soprattutto sul rapporto medico-psicologo di base che è il più innovativo. Bene o male con l’infermiere c’è un rapporto storico e consolidato nell’ambiente ospedaliero, nelle strutture di sanità pubblica e pertanto se pure con qualche “scossa di assestamento “ anche nel territorio avverrà la stessa cosa.

Con lo psicologo la vedo più dura! In primis perché dovrà essere definito meglio come sarà l’interazione e l’integrazione con noi. Dovrà essere chiarita una volta per tutte il problema della compresenza, vale a dire il fare ambulatorio insieme, tutti e due contemporaneamente dietro la stessa scrivania, che potrebbe essere foriero di situazioni talvolta anche imbarazzanti soprattutto per i pazienti.

Un ostacolo, poi, è  la ricaduta epistemologica della disciplina. Mi spiego meglio. La medicina, se pur con tutti i suoi limiti, a diversi livelli è oggettivabile e misurabile. La psicologia, nonostante il cognitivismo ci abbia provato in tutti i modi, invece no. Tante sono le teorie della mente e tanti sono gli orientamenti e le modalità di terapia e i conflitti, e le lotte quasi di religione che nella storia si sono succedute fra le varie scuole non hanno  certo aiutato e non aiutano a “fare comprensione”. C’è un altro aspetto poi,  difficile da spiegare e da sintetizzare. Ci provo con delle riflessioni che forse qualcuno potrà dire che sono mie personali, ed è vero! Derivanti dalla mia esperienza, dal fatto che ho avuto una formazione da psicoterapeuta per cui sono iscritto nell’elenco dei medici psicoterapeuti e che per qualche anno sono anche stato iscritto nell’albo degli Psicologi dell’Umbria.   Credo, però, che molti colleghi di una certa età come la mia, le condividono anche se non lo diranno mai ad alta voce.

I pazienti, i clienti tradizionali dello psicologo sono quasi sempre soggetti insicuri, indecisi, emotivamente instabili che necessitano spesso di essere presi per mano e poi portati a fare delle scelte. Questo ruolo dopo un po’ di tempo in qualcuno, soprattutto se giovane, fa scattare il meccanismo di sentirsi quasi un magister vitae un po’ con tutti, non solo con i pazienti. Se poi sempre  qualcuno, matura la convinzione di saper “decifrare” l’inconscio del proprio interlocutore ecco che abbiamo uno stereotipo di un operatore di cui lascio immaginare le conseguenze a chi mi legge.

Quale è il messaggio che voglio dare alla fine! Che tutti quanti dovremo fare dapprima un passo indietro. Spogliarci tutti quanti dal voler rivestire il ruolo di primo attore. Tutti abbiamo da insegnare e da imparare. Si dovrà prendere atto che non viviamo più in una casa singola ma in un condominio in cui esistono delle regole. Anzi! In un condominio una volta chiusa la propria porta di casa ognuno vive la propria vita….d’ora in poi invece  la nostra vita professionale dovrà essere vissuta con la consapevolezza di far parte di un sistema dove  il totale non è la somma delle singole parti e le criticità di una parte si riverberano su tutti quanti. Buon lavoro.

 

 

 

venerdì 16 ottobre 2020

"Quale medicina generale durante e dopo la pandemia? non sarà mai più niente come prima?" Editoriale pubblicato sulla rivista Sistema Salute n.2/2020

  

 

 Quale medicina generale durante e dopo la pandemia? non sarà mai più niente come prima?

 

Tiziano Scarponi

 

 

Non sarà mai più niente come prima è il mantra che oramai sentiamo ripetere quotidianamente in televisione, leggiamo nei giornali e nella rete. Questo genera uno stato continuo di ansia e di tensione in tutti noi. Che ci riserverà il futuro? Chissà dove andremo a finire? Da quando esiste il mondo, infatti, il non certo e l’ignoto spaventano e preoccupano, così come è accaduto in occasione di questo nuovo virus sconosciuto e così come siamo ancora spaventati e preoccupati nell’affrontare il presente e l’incertezza del futuro.

La mia esperienza personale, senz’altro comune alla maggior parte dei medici di medicina generale, è stata motivo di riflessione e descrizione in altra occasione (1), ma non posso fare a meno di ripetere come la sera del 9 marzo 2020 rimarrà sempre nella nostra memoria, allorché il Presidente del Consiglio annunciò il lockdown di tutta la nazione per l’epidemia da Covid 19. Da quel momento nel giro di una notte è cambiato quasi tutto il nostro modo di lavorare, non credo che sia qui il caso di fare la cronaca di quello che è accaduto e come abbiamo vissuto quei giorni terribili, ma credo che sia nostro dovere rappresentare, per evitare che si ripetano, soprattutto le criticità che abbiamo vissuto sulla nostra pelle.

Questa epidemia ha colto impreparati tutti noi. Se questo può essere parzialmente “perdonato” a chi per professione cura, lo è di meno a chi per professione è predisposto alla prevenzione e alla organizzazione dei sistemi sanitari. Senza far polemica, mi è bastato  scaricare dalla rete il Piano Pandemico della Regione Umbria  approvato con delibera n.963  l’11 giugno 2007 per trovare diverse indicazioni utili per fronteggiare tale crisi, ma di fatto,  è stato messo in “soffitta” e nessuna amministrazione e direzione generale che si sono succedute, ha mai sentito l’esigenza di rinfrescare la memoria degli attori coinvolti con formazione ed aggiornamenti.

Se dovessi affermare quali siano state le cause e i problemi che hanno condizionato lo sviluppo dei comportamenti della Medicina Generale li riassumerei essenzialmente in due:

1)     l’assoluta mancanza di Dispositivi di Protezione Individuali (DPI), denunciata più volte anche al Prefetto, che ha costretto la categoria ad operare in un clima di ansia e preoccupazione per la propria incolumità e dei propri familiari, che ha obbligatoriamente determinato una gestione “a distanza” di tutti quei pazienti che presentavano sintomi sospetti.

2)     Lo scollamento generale che si è registrata nelle prime due o tre settimane fra le varie figure sanitarie per la” caduta della catena di comando”, facendomi tornare in mente i vecchi racconti di mio padre sulla situazione in cui si trovò l’Italia alla data dell’8 settembre 1943.

 

Abbiamo assistito da una parte ad un bombardamento continuo di informazioni e indicazioni da parte di circolari, decreti e decretini che il dover leggerli interamente e comprenderli avrebbe assorbito la maggior parte della giornata: solo per la definizione di caso clinico sospetto abbiamo avuto almeno tre o quattro edizioni. Dall’altra parte risultava quasi impossibile mettersi in contatto diretto con i colleghi del Dipartimento di Prevenzione che erano in Umbria gli unici deputati a far eseguire il tampone molecolare per la ricerca dell’RNA del Coronavirus nel territorio. Tutto ciò ha generato uno stato di incertezza che ha spinto ognuno ad andare avanti per proprio conto, in modo isolato, seguendo le proprie emozioni, avendo come unica possibilità di confronto i colleghi della propria medicina di gruppo.  Questo ha determinato più di una volta il “palleggiamento” delle decisioni fra noi, la Continuità Assistenziale, il servizio del 118 e l’Ospedale, quest’ultimo paragonabile in quel momento quasi a un castello medioevale  arroccato in difesa e in  stato d’assedio.

Nonostante queste criticità però il territorio ha resistito a questo tsunami e la Medicina Generale ha svolto un ruolo importante.

Il primo passaggio è stato quello di applicare un triage rigoroso verso tutti gli accessi nei nostri  ambulatori da parte dei pazienti e  verso i nostri accessi a domicilio. Abbiamo inviato per via telematica tutto quello che era possibile inviare eleminando così la possibilità di formarsi code ed assembramenti nelle nostre sale d’aspetto.

La gestione dei pazienti Covid a domicilio è stata garantita, per la maggior parte di noi, da un contatto telefonico quasi continuo, telefonando molto spesso  anche nei giorni festivi, mantenendo così quel rapporto medico-paziente basato sulla conoscenza e fiducia reciproca.

Abbiamo contribuito, insieme al gruppo indicato dalla Regione, a scrivere un protocollo sperimentale per il trattamento domiciliare dei pazienti Covid con idrossiclorochina, che poi non è stato attuato sia per i problemi degli effetti collaterali paventati con l’uso di questo farmaco e sia perché per fortuna non era più possibile reperire pazienti che necessitavano di essere trattati.

Sale d’aspetto dei nostri ambulatori vuoti, servizi di pronto soccorso vuoti, sembrava che esisteva solo patologia Covid19 correlata e per diverse settimane siamo andati avanti con questo tenore: attività ambulatoriale con non più di una decina di accessi al giorno e un paio visite domiciliari motivate da richieste per problemi non differibili in pazienti con problemi di salute cronica che si erano scompensati.

 Sono poi arrivate un po’ di DPI dal nostro sindacato e dall’Ordine dei Medici, sono poi arrivate, a pandemia quasi finita, anche le USCA per la gestione domiciliare dei pazienti Covid positivi e il clima di normalizzazione è iniziato in maniera timida e circospetta anche prima dell’inizio ufficiale delle fasi 2 e 3.  

Credo che questa descrizione possa essere comune alla maggior parte della Medicina Generale Italiana eccezion fatta per quelle realtà regionali dove il Coronavirus ha colpito pesantemente come Lombardia, Piemonte ed Emilia. Tale opinione è sopportata dalle numerose testimonianze che era e ancora è possibile leggere sui social network Facebook e Twitter. Devo dare atto all’estrema utilità che hanno svolto queste nuove modalità relazionali nel mantenere un livello di informazione ed un senso di appartenenza che in quei momenti di sconforto e isolamento hanno garantito: narrazioni, condivisione di problemi, solidarietà, speranza e anche aggiornamento scientifico clinico quotidiano. Basti pensare alle prime comunicazioni fatte dagli anatomopatologi che hanno osservato come la maggior parte dei decessi avvenisse a causa di embolia polmonare nell’ambito di una coagulazione intravasale disseminata, decretando quindi l’uso dell’eparina. Alle notizie come la terapia a base di plasma iperimmune fosse favorevole. Anche i gruppi locali di WhatsApp hanno fatto la loro parte permettendo di sapere e condividere in tempo reale tutto quello che accadeva nella nostra realtà umbra.

Ho notizie di un’interessante ipotesi di un progetto della medicina generale veneta per sostenere con la comunicazione telefonica le persone in condizioni di vulnerabilità Covid19. Trattasi di un questionario strutturato per rendere concreto l’approccio bio-psico-sociale della cura e della presa in cura nelle condizioni di emergenza attraverso delle domande specifiche inerenti gli aspetti biologici e medici classici, la sfera psicologica dando la possibilità di esprimere ai pazienti il proprio “illness” ed il rilevamento degli aspetti sociali. Tutto questo comporterà un periodo di formazione e la validazione di questo progetto che risulterà molto importante per quello che sarà il teleconsulto e la telemedicina di cui la pandemia Covid ha fatto da enzima catalizzatore.  Questo aspetto è stato da me delineato nello scritto già citato (1) che riporto:

È molto difficile che si torni a lavorare come si lavorava prima della pandemia, anche se nessuno sa, poiché al momento tutte le prestazioni non urgenti non vengono soddisfatte, come si svilupperà una volta che sarà smaltita l’onda di riflusso delle prestazioni che erano state differite. Ci troveremo di fatto una popolazione nuova di pazienti che ha imparato a venire in ambulatorio quasi solo per appuntamento. Che dovrebbe avere imparato a venire per dei problemi più strettamente sanitari. Che dovrebbe aver imparato ad usare la tecnologia in generale e quella medica in particolare. Oramai moltissimi si sono dotati di saturimetro e sfigmomanometro e che “smanettano” su App che sono in grado di monitorare diversi problemi o parametri clinici.

Il teleconsulto per la patologia cronica, che credo resterà per la maggior parte in carico a noi, dovrà diventare prassi quotidiana. Mi immagino che il medico di famiglia entrerà dentro l’ambulatorio come se entrasse dentro una cabina di regia con tanti cruscotti e monitor in grado di fare una verifica in tempo reale, ogni ventiquattro ore, dei parametri sottoposti a monitoraggio di ogni singolo paziente. Facciamo l’esempio dello scompenso cardiaco: peso corporeo, indice di dispnea, saturazione dell’ossigeno, assunzione dei farmaci saranno informazioni fruibili quasi all’istante e pertanto sarà quasi automatico il richiamo del paziente per una valutazione diretta, oppure andare a domicilio per un esame clinico approfondito. Certo! Sono scenari che si adattano meglio a colleghi e pazienti nativi digitali, e lasciano in affanno noi “vecchi” medici, ma la Medicina di Famiglia se vorrà sopravvivere dovrà fare questo salto tecnologico accompagnato sempre da una modalità empatica e narrativa che sono e saranno sempre delle peculiarità di questa professione”.

A questo punto sorge spontanea la domanda. Tutte queste considerazioni sino ad ora esposte possono essere considerate esaustive per descrivere su come sarà la figura del medico di medicina generale del futuro oppure dalla pandemia dovremmo aver imparato qualche lezione? Al medico di assistenza primaria  basterà  occuparsi solo dell’attività clinica rivolta all’individuo e alla sua famiglia, oppure dovrà estendere il proprio raggio d’azione verso un concetto di “salute globale”, intendendo con questo il sorvegliare in un’ottica sistemica e complessa tutto l’eco-sistema della comunità in cui vive? Senza dubbio abbiamo imparato diverse lezioni: 

1)     l’importanza di un Servizio Sanitario Pubblico

2)     come il definanziamento del Servizio Sanitario a causa di una visione aziendalistica della salute porti a delle criticità che minano l’efficienza e l’efficacia del Servizio Sanitario stesso ripercuotendosi soprattutto sull’assistenza territoriale e sui servizi di prevenzione ed igiene

3)     le conseguenze di una deriva di un certo federalismo sanitario regionale in cui si è creata una competizione fra Governo nazionale e Governatori regionali e pertanto come dice il professor Briziarelli nel precedente editoriale di deve “….creare un sistema di diversi rapporti che integrino virtuosamente  le Regioni con un potere centrale a guida più forte senza che ritorni un centralismo passato né derive verso piccole repubbliche sovrane “.

4)     l’accentramento nei grossi poli ospedalieri in caso di pandemia rappresenta una criticità e non un vantaggio

5)     la cronica mancanza di comunicazione fra ospedale e territorio peggiora nell’emergenza

6)     senza dubbio l’inquinamento ambientale, lo sfruttamento intensivo del territorio con una visione industriale della produzione agricola e zootecnica hanno avuto una loro importanza.

Il medico di medicina generale, pertanto, non potrà sottrarsi al ruolo di sentinella e di sorvegliante della salute della comunità in cui opera. Ci attende una formazione, una curiosità ed una sensibilità cui non siamo abituati, ma ce lo richiede in nostro codice deontologico, i nostri pazienti e il nostro “essere” medici.

 

 

 

1.     La medicina di famiglia e il coronavirus. Pubblicato su "Una finestra sulla pandemia". Esperienze e riflessioni sistemiche. 

http://www.aiems.eu/files/aiems_-_una_finestra_sulla_pandemia.pdf

 

 

 

 

 

 

  

 

 

lunedì 20 luglio 2020

LA DITTATURA DELL’ ALGORITMO Editoriale pubblicato sul Bollettino dell'Ordine dei Medici Chirurghi della Provincia di Perugia n2/2020

LA DITTATURA DELL ’ALGORITMO 

 

Sono stato sempre dell’idea che con il passare del tempo accumulando esperienza e conoscenza  avrei avuto una vita sempre più tranquilla e con maggiori certezze. Ero convinto che i principi e i valori che avevo ricevuto, soprattutto sulle modalità razionali e tradizionali con cui affrontare la realtà poggiassero su delle fondamenta solide ed indiscutibili tanto che  davo quasi per scontato il risultato …..ma chi poteva immaginare che nel giro di un paio di decenni cambiassero  totalmente “ i paradigmi” di vita del mondo intero?

Globalizzazione, tecnologia informatica, intelligenza artificiale, Big Data, sviluppo delle neuroscienze sono delle parole che sino a poco tempo fa rimandavano, forse, ad una letteratura fantascientifica e in effetti, gli scenari che si stanno delineando sembrano uscire dalle pagine di Asimov o di Nolan.

La comprensione scientifica del funzionamento dei cervelli e dei corpi suggerisce che i nostri sentimenti non siano unicamente una qualità spirituale umana e non riflettono alcun tipo di libero arbitrio. I sentimenti sono invece processi biochimici che tutti i mammiferi e gli uccelli usano per calcolare velocemente probabilità di sopravvivenza e di riproduzione. I sentimenti non si basano sull’intuizione , sull’ispirazione o sulla libertà-si basano sul calcolo………entro qualche decennio, gli algoritmi di Big Data alimentati da un costante flusso di dati biometrici potranno monitorare la nostra salute ventiquattro ore al giorno tutti i giorni. Potranno determinare l’esatto momento di inizio di malattie come l’influenza, il cancro o l’Alzheimer, molto prima che ci accorgiamo che qualcosa in noi non funziona. Potranno quindi raccomandare trattamenti idonei, diete e terapie quotidiane su misura, in base alla nostra personalità, al nostro fisico e al nostro DNA”.

Credo che queste considerazioni di Y.N.Harari  in “ 21 lezioni per il XXI secolo” (pag 80-83) Bompiani 2019 si commentino da sole . L’autore però non si limita solo a  dire questo. Infatti prevede un notevole sviluppo dei sensori biometrici che, applicati sul nostro corpo, avranno la funzione di convertire i processi biologici in informazioni elettroniche immagazzinate e analizzate dai computer. Pertanto c’è da aspettarsi degli algoritmi che saranno in grado di interferire con tutti i desideri, le opinioni e le decisioni. “ saranno in grado di sapere esattamente chi sei“.

Certo che se questo si avvererà , ci sono tutti presupposti perché lo sia a breve, la nostra vita e il nostro mondo cambieranno in modo veramente radicale. 

Pensiamo solo alle ricadute che questi scenari potranno avere sul nostro lavoro di medici. La prima logica conseguenza  sarà quella che gli algoritmi e l’intelligenza artificiale manderanno in pensione forzata la maggior parte di noi: radiologi, dermatologi e anatomopatologi saranno i primi, ma poi con lo sviluppo della robotica spariranno le professioni chirurgiche e poi seguiranno molte altre.

Tutto sarà regolato in modo impeccabile secondo linee guida che saranno applicate con la logica della probabilità calcolata e prevista. Tutto bello e senza problemi? Credo proprio di no.

Evito di addentrarmi in considerazioni sociologiche che esulano dalla mia competenza: la possibilità di hackerare e manipolare le scelte da parte di chi possiede e gestisce i dati. Il rischio di creare una vera e propria “ dittatura digitale” soprattutto nelle nuove “generazioni google” di nativi digitali. Credo sarà capitato a tutti noi di vedere come i nostri figli minori quando sono al volante dell’auto  si affidino  totalmente a Google Maps anche quando un minimo ascolto del proprio senso di orientamento  porterebbe in altre direzioni. Quello che voglio dire che dovremo prepararci ad una nuova e per certi aspetti vecchia patologia: la decorporeizzazione“ Gli esseri umani sono dotati di corpi. Nel corso dell’ultimo secolo la tecnologia ci ha allontanato dai nostri corpi. Stiamo perdendo la capacità di percepire odori e gusti. Mentre siamo assorbiti dai nostri smartphone e computer. Siamo più interessati a ciò che accade nel cyberspazio invece che a quanto sta accadendo a casa nostra. E’ facilissimo  parlare con mio cugino in Svizzera, ma è difficile parlare con mio marito a colazione, che sta guardando in continuazione il suo smartphone” (op.cit. pag 127-129).  Nessuno sa come evolverà questa nuova dimensione che  porta ad estraniarsi dalla realtà reale a favore di quella virtuale. Senza dubbio favorirà un sentimento di alienazione e disorientamento confondendo sempre di più la propria percezione del mio” essere-nel mondo. Matrix è dietro l’angolo, potrebbe affermare qualcuno, e senza dubbio per molti potrebbe essere un rischio possibile. 

 “ All’inizio internet era uno spazio nel quale andare, ora è uno spazio in cui essere: una norma universale pervasiva tanto quanto i mezzi di scambio (il denaro), i sistemi di fede (la religione) e i regimi politici (lo Stato). E infatti il web ha più netizens ( cittadini della rete) e più frequentatori di quanti credenti abbia qualsiasi religione. La cyberciviltà si estende lungo i fiumi digitali e i loro affluenti, proprio come la civiltà materiale ha fruito, nella storia, dei corsi d’acqua”. (Connetctography: le mappe del futuro ordine mondiale di Parag Khanna, Fazi editore 2016 pag. 461). Anche in questo libro troviamo elementi di riflessione sul ribaltamento dei paradigmi già in corso e quello che ci aspetterà in un futuro abbastanza prossimo. L’autore parte dalla considerazione che la globalizzazione oramai è un processo inarrestabile e ineluttabile e che la geografia sarà completamente  ridisegnata dalla connettività verso le supply chain ( sistema di organizzazioni, persone, attività, informazioni e risorse coinvolte nel processo atto a trasferire o fornire un prodotto o un servizio dal fornitore al cliente) o più semplicemente infrastrutture.

Connettività sia fisica che digitale che demolisce distanze, usi, costumi e tradizioni di qualsiasi comunità dichiarando la fine di ogni nazionalismo, regionalismo privilegiando il concetto di cittadino del mondo dell’era globale. 

Come dobbiamo comportarci difronte a questi scenari e a questo cataclisma che volenti o nolenti sfiora la mia generazione, ma coinvolgerà appieno quella dei miei figli e nipoti?

La parola d’ordine  sia di Harari che di Khanna è resilienza . Resilienza pragmatica aggiungo io, partendo dalla consapevolezza che la “connettività è diventato il fondamento della società globale e che le persone si connettono con il resto del mondo non attraverso la politica, ma attraverso i mercati e i media”. Essere resilienti significa capire che l’era del privilegio ereditato è finita e il futuro sarà sull’autosufficienza e non più sui diritti acquisiti anzi, non ci sarà più nessun diritto ad essere ricchi per grazia ricevuta.

Che c’azzeccano queste riflessioni nel “ qui e adesso”? Nella nostra quotidianità spesa tra una valutazione clinica di un paziente e l’ascolto della sua narrazione? Tra un disappunto per le lista di attesa e il blocco del server regionale per l’ attività del CUP e per la ricettazione dematerializzata?

Che senso ha questo editoriale concepito sull’onda dell’emozione e dello sconcerto piuttosto che su un’analisi scientifica consapevole? Non sono in grado di dare una risposta precisa. Forse l’emotività e lo sconcerto  mi hanno generato ansia ed angoscia e, come per un paziente che viene in ambulatorio a raccontarci la propria storia di malattia, per il semplice fatto di condividerla con noi, l’ansia e l’angoscia diminuisce, così ho fatto io.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

mercoledì 6 maggio 2020

La medicina di famiglia e il coronavirus. Pubblicato su "Una finestra sulla pandemia". Esperienze e riflessioni sistemiche e sul Bollettino Ordine dei Medici Perugia Edizione straordinaria Coronavirus


La medicina di famiglia e il coronavirus





Impossibile in questo momento prevedere come sarà il futuro della medicina di famiglia! In pieno tsunami sta cercando di rigenerarsi, di aprire nuovi percorsi: fondamentali sono i gruppi FB e WhatsApp in cui condividiamo ansie, comportamenti clinici, problemi medico-legali che di fatto stanno delineando il futuro della nostra professione. Se fossi in grado di proiettare un video della mia medicina di gruppo composta da 7 colleghi, con un’utenza di 8000 pazienti, potrebbe essere considerato paradigmatico della vita professionale di questi giorni. Sala d’aspetto e corridoio vuoti. Le seggiole accatastate con sole 3 o 4 disponibili per potersi sedere, opportunamente distanziate. Noi medici tutti in camice e mascherina che ogni tanto, ognuno sulla soglia del proprio studio per mantenere la distanza di sicurezza, parliamo ed esprimiamo come viviamo la nostra angoscia del contagio soprattutto nei confronti delle proprie famiglie. Su come ci troviamo a gestire il nostro lavoro tramite telefono per circa il 70%, come abbiamo risolto il problema dell’invio telematico delle ricette e dei certificati, dove abbiamo trovato le mascherine. Senza dubbio niente sarà più come prima. 
Mi alzo il mattino alle 6,30 per essere alle 8 in ambulatorio dove inizia il mio lavoro “istituzionale”: invio telematico di ricette che trovo su segreteria telefonica, su email, su messenger e WhatsApp. 
Due telefoni, fisso e cellulare, che squillano continuamente: in media dalle 110 alle 130 telefonate al giorno. Odi et amo: mi viene in mente pensando al telefono. Lo odio perché il suo squillo mi sta lacerando il cervello. Lo amo perché senza di lui mi senterei finito come si sentirebbero persi i miei pazienti se non dovessero sentire più la mia voce attraverso lui. Dubbi, preoccupazioni, conforto, consigli, prescrizioni e commiserazione, al momento passa quasi tutto attraverso lui. Allo stato attuale il telefono è il mio occhio, la mia mano: sempre acceso giorno e notte, sette giorni su sette. 
Quando il telefono non è sufficiente il paziente viene a studio concordando prima con me il suo accesso:”Mi raccomando venga puntuale alle ore x per evitare che si formino code, indossi una mascherina chirurgica”. La seduta è completamente cambiata: non più strette di mano, non più accoglienza empatica, non sono ancora riuscito a elaborare un nuovo modello di contatto: la voce è falsata dalla mascherina che mi fa vedere solo gli occhi e la fronte. Spesso sono più concentrato sul tipo di mascherina che il paziente indossa, sul tempo che ci mette a raccontarmi la sua storia e su quello che impiego io per raccogliere l’esame fisico, l’esame obiettivo. Il modo di vivere la visita domiciliare è ancora peggiore. Rapido, telegrafico, preoccupato soprattutto se il paziente è molto anziano e vive da solo e presenta difficoltà nel recepire quello che dico. 
E’ strano! Forse non è strano, ma mi sto rendendo conto che non sono più me stesso. Mi sento più soddisfatto di come curo in modo virtuale piuttosto che in quello reale. Per telefono riesco ad essere più vicino, più Tiziano alla vecchia maniera. Con il paziente davanti, in carne ed ossa, mi spiace dirlo, ma mi sento in ansia, percepisco la sua presenza quasi come un fastidio, come se avessi davanti a me un nemico...forse dovrei crearmi un avatar. 
A questo punto è d’obbligo qualche considerazione sugli scenari futuri che si stanno delineando per la mia professione. E’ molto difficile che si torni a lavorare come si lavorava prima della pandemia, anche se nessuno sa, poiché al momento tutte le prestazioni non urgenti non vengono soddisfatte, come si svilupperà la situazione una volta che sarà smaltita l’onda di riflusso delle prestazioni che erano state differite. Ci troveremo di fatto una popolazione nuova di pazienti che ha imparato a venire in ambulatorio quasi solo per appuntamento. Che dovrebbe avere imparato a venire per dei problemi più strettamente sanitari. Che dovrebbe aver imparato ad usare la tecnologia in generale e quella medica in particolare. Oramai moltissimi si sono dotati di saturimetro e sfigmomanometro e che “smanettano” su App che sono in grado di monitorare diversi problemi o parametri clinici. 
Il teleconsulto per la patologia cronica, che credo resterà per la maggior parte in carico a noi, dovrà diventare prassi quotidiana. Mi immagino che il medico di famiglia entrerà dentro l’ambulatorio come se entrasse dentro una cabina di regia con tanti cruscotti e monitor in grado di fare una verifica in tempo reale, ogni ventiquattro ore, dei parametri sottoposti a monitoraggio di ogni singolo paziente. Facciamo l’esempio dello scompenso cardiaco: peso corporeo, indice di dispnea, saturazione dell’ossigeno, assunzione dei farmaci saranno informazioni fruibili quasi all’istante e pertanto sarà quasi automatico il richiamo del paziente per una valutazione diretta, oppure andare a domicilio per un esame clinico approfondito. Certo! Sono scenari che si adattano meglio a colleghi e pazienti nativi digitali, e lasciano in affanno noi “vecchi” medici, ma la Medicina di Famiglia se vorrà sopravvivere dovrà fare questo salto tecnologico accompagnato sempre da una modalità empatica e narrativa che sono e saranno sempre delle peculiarità di questa professione. 
Trauma da pandemia, adattamento, rigenerazione e “costruzione” di un nuovo rapporto tra medico e paziente. Una nuova co-costruzione ci attende. Noi medici e noi pazienti, magari molto più “smart”. 
Mentre sto arrivando alle conclusioni di questo breve scritto è passato qualche giorno da quando lo avevo iniziato e già sto notando come il mio “setting” si stia adattando a recuperare il rapporto con i pazienti in modo rilassato e senza fretta. Mi sto abituando a superare l’ansia del contagio, forse anche perché la dotazione di dispositivi medici di sicurezza è aumentata. Forse perché a mia volta ho avuto un contatto a rischio con un paziente Covid-19 e sono stato “tamponato”, fortunatamente con esito negativo. Forse perché mi sto abituando ad entrare in casa passando per il garage svestendomi, gettando mascherina e guanti nei contenitori di smaltimento rifiuti speciali, disinfettandomi le mani, indossando una tuta che uso solo dentro le mura della mia abitazione. Non bacio più né moglie né figli. Non vedo più il mio primogenito, medico anche lui, dal mese di febbraio: una scelta fatta di proposito per spalmare le probabilità di contagio al 50% fra noi due...così è la vita all’era del Coronavirus. 

domenica 22 marzo 2020

Un augurio, un invito, un saluto. RITORNEREMO

RITORNEREMO

Ritornerò ad abbracciarvi, figli miei, mie persone care! Ritorneremo a stringerci la mano come 
un tempo amici miei, pazienti miei! Ritornerò ad inerpicarmi sui sentieri antichi dei miei colli e dei miei monti dell’Appennino! Ritornerò a specchiarmi lungo le acque del mio Tevere, del mio Chiascio e del mio Nera! Ritornerò a godermi i tramonti del mio Trasimeno.

Terra mia! Padri miei! Avete resistito alle orde dei barbari, alle pestilenze dei tempi passati, alle carestie, alle guerre, al fratello terremoto con cui conviviamo da sempre e non ci arrenderemo alle nuove epidemia, mai! Abbiamo con noi la capacità di lavoro e preghiera di San Benedetto! Abbiamo con noi la capacità di amore e misericordia di San Francesco! Abbiamo con noi la soluzione dei casi impossibili di Santa Rita.

Figli miei tenetevi stretti i nostri valori, la nostra tradizione di civiltà contadina e artigiana.
Portate in giro le nostre radici schive, scontrose e silenziose.
La nostra cultura è fatta di silenzio, di sguardi fugaci e di aggressività al momento giusto.
Padri miei qualche volta vi ho anche odiato, ma mai e poi mai ho smesso di amarvi.

Corriamo come i nostri Ceri, cavalchiamo come nelle nostre Giostre e Quintane, cantiamo e recitiamo come nel nostro Calendimaggio e nelle nostre Gaite. Portiamo per il mondo i profumi dei nostro olio e del nostro vino. Inebriamo il mondo con il nostro tartufo, zafferano e le carni dei nostri maiali. Vi abbraccio tutti amici e fratelli dell’Umbria!



venerdì 29 novembre 2019

SUSSURRI E GRIDA.Editoriale pubblicato sul Bollettino dell'Ordine dei Medici della Provincia di Perugia N.3/2019

SUSSURRI E GRIDA

Questo editoriale è stato scritto sotto il sole rovente dell’estate 2019 dopo aver rivisto il film di Ingmar Bergman :” Sussurri e grida”  e dopo aver letto l’articolo :“ Miseria e nobiltà della medicina generale”  scritto dal collega Francesco Benincasa  e pubblicato il 5 agosto u.s. nella rivista Accademia Italiana delle Cure Primarie, cui rimando la visione originale completa 
Tale articolo, a mio giudizio, rappresenta un’ottima riflessione e spero che venga letto soprattutto dai medici generali giovani, perché definisce una vera cornice ontologica della medicina di famiglia oggi.
E’ un momento di cambio generazionale. Fra qui e quattro o cinque anni quasi il 70% dei Medici Generali attuali sarà andato in quiescenza e sarà sostituito da colleghi giovani e freschi, ma tale cambio sarà del tutto indolore? L’eredità che stiamo per lasciare sarà recepita o nella normale dialettica di contestazione fra vecchi e giovani potrebbe essere stravolta e riorientata in modo tale che la stessa dizione “ medicina di famiglia” non potrà essere più usata come per molti già lo è….famiglia concetto superato e bollito.
Alcuni segnali mi preoccupano. In un comune dell’Umbria al pensionamento di due MG è subentrata una collega che dopo circa un mese ha rassegnato le dimissioni per l’eccessivo carico di lavoro e non c’era subito nessun medico che fosse disposto a trasferirsi lì come primo ambulatorio. In tutta Italia per i piccoli comuni montani non si reperiscono medici. Trovare un sostituto per le ferie o la malattia spesso è un problema. Gli informatori del farmaco in modo quasi unanime mi confessano che con il nostro pensionamento andrà in pensione anche la Medicina Generale, almeno per come la conosciamo ora. Sono molto frequenti, nel gruppo FaceBook Medici Generali dell’Umbria che amministro, i commenti di colleghi giovani che si lamentano e che desidererebbero fare i Medici Generali dipendenti e non più in convenzione. 
Come interpretare tali segnali? Una collega, mia quasi coetanea, alcuni giorni orsono mi ha detto:” I nuovi medici arrivano con lo zaino. Sono presi dal computer, dalla segretaria, chiedono se c’è lo spirometro e l’elettrocardiografo…..noi non eravamo così!”.
E’ ovvio e sacrosanto che siano diversi da noi che siamo partiti solo con lo sfigmo e lo stetoscopio, 
che non abbiamo avuto il Corso di Formazione Specifica in Medicina Generale, che ci siamo dovuti disegnare il nostro ruolo e la nostra specificità con un percorso a ritroso basato sull’esperienza e sulle “ battute di muso”,  credo però che sia  opportuno fissare alcuni concetti derivanti dalla lettura dell’articolo sopracitato. Può servire da testamento morale.
“La pratica clinica rischia di rimanere subordinata alle ragioni della cultura aziendalistica. 
Ci si trova schiacciati tra l’esigenza di ridurre le spese e incrementare la burocrazia, i bisogni della gente, la concorrenza della medicina commerciale-estetica, difronte alle quali si resta come una Cenerentola senza scarpetta, con un ruolo sociale eroso dalle numerose sottoculture del senso comune. Decritto in questo modo il generalista sembra un naufrago su di un’isola deserta; sotto molti aspetti l’immagine non è lontana dalla realtà. Il senso di solitudine e di abbandono che a volte accompagna quest’attività può essere vinto attraverso lo studio, la ricerca e un’alleanza terapeutica onesta e aperta con il paziente”.
E’ proprio vero! Oramai viviamo fra l’incudine e il martello: i pazienti sempre più pretenziosi abbagliati dalle luci della ribalta di una medicina sempre più spettacolo, sempre pronta a spacciare scorciatoie chimiche che dovrebbero risolvere qualsiasi problema: dalla timidezza o dalla voglia di fare l’amore, dal far dimagrire o dall’essere intelligenti e brillanti. Un Servizio Sanitario sempre più sotto finanziato, che contrabbanda il risparmio per appropriatezza ed una Medicina sempre più impostata su percorsi diagnostici terapeutici ed assistenziali che poco spazio danno alla concertazione e alla relazione medico paziente.
Quando alla fine degli anni ’70 iniziai il mio lavoro, si respirava un’aria diversa. Tutti avevano chiaro quali fossero i limiti e le possibilità della medicina e spesso gli obiettivi, le cure e i rimedi per le malattie venivano fissati di volta in volta dalla relazione medico-paziente dentro la cornice della propria storia, del proprio contesto, di quelle che erano le aspettative del malato e della sua famiglia e non esisteva la rincorsa del risultato ad ogni costo. “Ci sono gior­ni in cui sem­bra di sba­glia­re qua­lun­que de­ci­sio­ne si pren­da e in cui ci si sen­te in­ca­pa­ci e igno­ran­ti. La si­cu­rez­za in Me­di­ci­na Ge­ne­ra­le è sem­pre il­lu­so­ria e mo­men­ta­nea; non è fa­ci­le im­pa­ra­re a con­vi­ve­re pro­fes­sio­nal­men­te con la di­men­sio­ne del­l’in­cer­tez­za. Nel quo­ti­dia­no si deve con­te­ne­re l’an­sia con­nes­sa al dub­bio; un’an­sia che pro­vie­ne dal­la re­spon­sa­bi­li­tà del ruo­lo, da de­le­ghe a vol­te poco chia­re, dai con­fi­ni so­cia­li, dai vin­co­li e dai ri­schi le­ga­ti alla pre­sa di de­ci­sio­ne”. Altra grande verità! Il dover imparare a gestire da soli le proprie incertezze! A differenza dell’ospedale dove sei quasi sempre comunque con qualcuno con cui condividere il peso delle proprie decisioni: un collega parigrado o più anziano ed esperto o un infermiere. Io dico sempre che quando sali le scale delle case dei tuoi pazienti e ti si apre la porta della camera con il paziente sdraiato sopra il letto sei solo tu, con la tua borsa, le tue mani e la tua testa e in pochi minuti ti si impongono delle scelte da cui può derivare la vita o la morte di un altro essere umano. L’era dell’informazione alla portata di tutti, informazione rapida quasi ossessiva. Informazione spesso recepita in modo acritico che crea nell’ignorante presunzione, aspettative di risoluzioni veloci di qualsiasi problema. Presunzione, aspettativa, aggressività se l’aspettativa non viene soddisfatta! Come poter rispondere a questi aspetti?” Per man­te­ne­re sal­da l’al­lean­za e la col­la­bo­ra­zio­ne con il pa­zien­te si de­vo­no sfrut­ta­re con­sa­pe­vol­men­te le ca­pa­ci­tà te­ra­peu­ti­che del­l’at­to me­di­co, del­la pre­scri­zio­ne, del ge­sto, del rito. E’ ne­ces­sa­rio tro­va­re un giu­sto equi­li­brio tra pa­ri­tà, pa­ter­na­li­smo, col­la­bo­ra­zio­ne, con­di­vi­sio­ne e pro­fes­sio­na­li­tà. L’at­ten­zio­ne e l’a­scol­to de­vo­no es­se­re mas­si­mi e au­ten­ti­ci dal pri­mo mo­men­to……Tut­ta­via, ascol­to e cli­ni­ca, ti­pi­ci stru­men­ti del­la me­di­ci­na ge­ne­ra­le, sono in cri­si. Ci sono si­tua­zio­ni in cui a tut­ti pas­sa per la men­te che la vi­si­ta è di­ven­ta­ta un inu­ti­le e fa­ti­co­so or­pel­lo . La ten­den­za a non vi­si­ta­re va di pari pas­so con la ten­den­za ad am­mu­to­li­re il pa­zien­te. Come se il mes­sag­gio (a vol­te espli­ci­to) fos­se: “Taci e la­scia­mi la­vo­ra­re. Pos­so fare a meno dei tuoi sin­to­mi e del­la tua voce. La tua opi­nio­ne è ir­ri­le­van­te, le tue im­pres­sio­ni su­pe­ra­te dai fat­ti for­ni­ti­mi dal­la tec­no­lo­gia” .La ten­ta­zio­ne di re­sta­re se­du­ti e pre­scri­ve­re esa­mi è for­te, così come è for­te la vo­glia di va­lu­ta­re la si­tua­zio­ne leg­gen­do i re­fer­ti o guar­dan­do le me­ra­vi­glie del­la dia­gno­sti­ca per im­ma­gi­ni sul­lo scher­mo del com­pu­ter in­ve­ce di aver vi­si­ta­to la per­so­na. Al­zar­si dal­la se­dia e in­vi­ta­re l’as­si­sti­to a sten­der­si sul let­ti­no vie­ne qua­si con­si­de­ra­ta una su­per­flua at­ti­vi­tà, su­pe­ra­ta dal­la po­ten­za de­gli stru­men­ti. Ep­pu­re, la se­meio­ti­ca re­sta fon­da­men­to del­la me­di­ci­na. An­che quan­do si ha la net­ta im­pres­sio­ne che la tec­no­lo­gia po­treb­be fare di più e che le ma­no­vre se­meio­lo­gi­che o i se­gni cli­ni­ci rap­pre­sen­ta­no una per­di­ta di tem­po, è ne­ces­sa­rio esa­mi­na­re il pa­zien­te.”
L’esplosione dell’informatica, della tecnologia tende molto spesso a rinunciare a visitare e a toccare il paziente. Grande errore! Dovremmo conoscere tutti l’importanza della visita e della semeiologia fisica che trascende la semplice funzione diagnostica, ma che assume anche  un significato rituale, quasi ancestrale rimandando ad una “valenza sciamanica” che racchiude in sé una funzione di com-partecipazione, di com-passione, del prendersi cura comunque, anche se non si può guarire.
L’ascolto silenzioso che deve accompagnare la storia e la narrazione che ci fa il paziente  già da solo è terapeutico, il poter conoscere il suo mondo, quello che sa del suo problema o della sua malattia costituisce una risorsa irrinunciabile e è bene che chi comincia questo lavoro, si metta bene in testa che percorrerà tante strade quante saranno gli  assistiti che avrà in cura. 
Saranno strade talora in salita, altre volte in discesa e tortuose. Con poche certezze e il senso di precarietà che costituirà il live motive delle nostre giornate. Certo! Diventare dipendenti potrebbe per certi aspetti togliere il senso della precarietà della nostra vita: avere diritto a ferie pagate, a poter star male con “tranquillità”, a partire da subito con una retribuzione dignitosa senza dover aspettare di vedere crescere giorno dopo giorno un numero di “mutuati” che ti permetta di sopravvivere e tanti altri vantaggi accessori che il medico dipendente ha e neanche immagina….ma non saremmo più il medico di Mario Rossi o di Patrizia Bianchi. Saremmo i medici di quel distretto o di quella struttura con una visione professionale completamente diversa.
Sta a noi scegliere di lavorare come Karin e Maria o come Anna al capezzale di Agnese…ma che dico? Al capezzale della Medicina Generale.  













  
  

mercoledì 2 ottobre 2019

EDITORIALE SULLA MEDICINA NARRATIVA pubblicato sul volume 62 numero 3 della rivista SISTEMA SALUTE

EDITORIALE SULLA MEDICINA NARRATIVA SISTEMA SALUTE

Quando ho accettato di curare questa monografia sulla Medicina Narrativa per la rivista Sistema Salute, l'ho fatto senza rifletterci più di tanto poiché ero convinto di "padroneggiare" l'argomento con disinvoltura e tranquillità, ma mi sono dovuto ricredere molto presto. Quando, infatti, sei coinvolto in prima persona nel dover  rendicontare su qualcosa, amplifichi in intensità ed ampiezza l'attenzione e la cura su tutto quello che di questo qualcosa ti passa per le mani. Non pensi che, da quando la rete web è di fatto diventata la fonte più consueta per l'approvvigionamento di notizie e aggiornamenti, il bombardamento continuo di recensioni, di pubblicazioni e di stimoli che ne viene fuori, ti stordisce, ti disorienta e tutto quello che oramai davi per scontato corre il rischio di essere messo  in discussione. La mole delle informazioni, delle suggestioni è tale che non sai mai da che parte cominciare e alla fine prendi la decisione di approfondire solo quei concetti che più ti premono, quelli di cui senti la necessità di affrontare perché, proprio quelli, per te non hanno trovato delle risposte.
Il mandato che mi è stato affidato è quello di provare a rispondere alle seguenti domande:
" Tutto questo fiorire d’interesse nei confronti della Medicina Narrativa  è solo moda? Rispetto al suo esordio ha avuto degli sviluppi ? E, soprattutto per una rivista che ha per argomento l'educazione sanitaria e la promozione della salute, la Medicina Narrativa ha qualche utilità in tal senso o è solo uno strumento di cura per la terapia di soggetti malati?".
Non mi dilungo sull'importanza e sul valore anche terapeutico delle narrazioni da quando l'uomo è comparso sulla terra ad oggi. Si dovrebbe partire dalle raffigurazioni  rupestri del paleolitico, attraversare tutta la mitologia e la filosofia del mondo classico, passare attraverso le leggende e le misture di credenze di santi cristiani con i rimedi alchemici stregonici sino ad arrivare alla "separazione avvenuta tra il XVII e il XIX secolo fra la medicina-tra-la-popolazione ( quella dei cerusici, monaci, apotecari) e la medicina-fra le-mura-ospedaliere. Periodo questo, in cui sono nate le grandi istituzioni ( manicomi, ospedali) contemporaneamente allo sviluppo della rivoluzione industriale e della scienza positivista". (1 ). Da questo momento in poi, l'interesse della medicina si è focalizzato su di un corpo biologico analizzato come un assemblaggio di organi e  i suoi guasti dovevano essere ricercati con delle categorie convenzionalmente concordate: le malattie. Il risultato, pertanto, era lo studio e l'osservazione di un oggetto decontestualizzato dalla propria storia, dal proprio ambiente e dal proprio carattere e dalla propria mente.
Si deve aspettare la fine degli anni ’70  dello scorso secolo perché cambi qualcosa. Lo psichiatra statunitense George Limban Engel, forte dell’eredità di Martin Heidegger e della filosofia ermeneutica sancisce l’inseparabilità fra Soggettività ed Oggettività e teorizza l’approccio biopsicosociale  da  affiancare a quello biomedico. Il passaggio successivo è quello dell’antropologo medico Byron Good che per primo parla di NBM come modello per interpretare il “ vissuto di malattia “ del paziente, per arrivare ai giorni nostri con Rita Charon che definisce  nello storico articolo del 2001 su JAMA gli obiettivi della medicina narrativa: “La Medicina Narrativa fortifica la pratica clinica con la competenza narrativa per riconoscere, assorbire, metabolizzare, interpretare ed essere sensibilizzati dalle storie della malattia: aiuta medici, infermieri, operatori sociali e terapisti a migliorare l’efficacia di cura attraverso lo sviluppo della capacità di attenzione, riflessioni, rappresentazione e affiliazione con i pazienti e i colleghi “ .  Da allora la Medicina Narrativa ha acquisito la piena dignità di disciplina scientifica e è letteralmente esplosa. Sono nate società scientifiche e associazioni e non è più possibile contare i convegni, i congressi e le pubblicazioni sull'argomento tanto, come dicevo all'inizio, da restare disorientati nel cercare di tirare le fila.
A questo punto perciò proseguo con alcune considerazioni  personali  per provare a sollevare alcuni problemi ben sapendo che sarà alquanto difficile trovare delle soluzioni e delle risposte.
Tanta, dovrebbe essere stata l'esigenza di fare ordine sulla Medicina Narrativa, che l'Istituto Superiore di Sanità ha radunato un gruppo di esperti  per dar vita ad una Conferenza di Consenso denominata :"Linee di indirizzo per l'utilizzo della medicina narrativa in ambito clinico-assistenziale, per le malattie rare e cronico-degenerative" che ha partorito un documento definitivo di consenso (2)pubblicato con il contributo incondizionato della multinazionale del farmaco Pfizer. 
In questo documento leggiamo la seguente definizione di MN:
 "Con il termine di Medicina Narrativa (mutuato dall’inglese Narrative Medicine) si intende una metodologia d’intervento clinico-assistenziale basata su una specifica
competenza comunicativa. La narrazione è lo strumento fondamentale per acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista di quanti intervengono nella malattia e nel processo di cura. Il fine è la costruzione condivisa di un percorso di cura personalizzato (storia di cura).
La Medicina Narrativa (NBM) si integra con l’Evidence-Based Medicine (EBM) e, tenendo conto della pluralità delle prospettive, rende le decisioni clinico-assistenziali più complete, personalizzate, efficaci e appropriate.
La narrazione del paziente e di chi se ne prende cura è un elemento imprescindibile della medicina contemporanea, fondata sulla partecipazione attiva dei soggetti coinvolti nelle scelte. Le persone, attraverso le loro storie, diventano protagoniste del processo di cura.(3) 
Senza dubbio come scrissi a suo tempo (4) " si è sentita l'esigenza di "normare" e "teorizzare" la Medicina Basata sulla Narrazione per evitare che uno spontaneismo incontrollato potesse dar vita ad uno stile salottiero del prendersi cura.
Sono stati esplorati i presupposti, la storia, i modelli di approccio per arrivare ad una definizione e indicare anche gli strumenti. Questa esigenza di normare però, questa volontà di proporre una definizione ed una metodologia, se da una parte origina da un sacrosanto principio di voler portare ordine e chiarezza, dall'altra può incorrere nel rischio di tornare sudditi del paradigma scientifico la cui insufficienza si voleva superare: "Tuttavia, è importante evitare di finalizzare la medicina narrativa al solo contesto della cura di un singolo paziente perché non è possibile eludere la richiesta che essa debba essere sottoposta a stringenti requisiti di validità scientifica" (5), si avverte cioè la tentazione di voler a tutti costi oggettivare e reificare, nel senso di trasformare in oggetto, quello che è un rapporto umano dinamico, di scambio di un qualcosa che molto spesso è impalpabile e non misurabile.
Ivan Cavicchi nel suo saggio breve:" Il linguaggio della salute " (6) afferma che la MN posizionandosi per propria definizione   come del " tutto simmetrica alla medicina basata sull'evidenza...diventa  una ipotesi ausiliaria a sostegno del vecchio e macilento paradigma positivista" e pertanto la liquida come un qualcosa che non va al di là della buona pratica clinica.  Cavicchi portando avanti in modo lucido e coerente tutto il suo discorso  sulla  questione medica, insieme alla Medicina Narrativa bastona  e definisce come mode: le "medical humanities", la bioetica, la medicina basata sull'evidenza e persino la slow medicine che viene relegata al meglio del buon senso che si ferma però solo in superficie. Non condivido i toni estremistici di Cavicchi e molte  sue conclusioni, ma  condivido con lui il fatto che l'approccio narrativo, così come viene rappresentato al documento di consenso, corra il rischio di  perpetuare la scissione cartesiana fra scienze della natura e scienze umane e faccia nascere forte anche il sospetto  che il rapporto medico paziente venga alla fine ghettizzato dentro una cornice di un quadro clinico e di una semplice  trama narrativa.
Quale è pertanto il problema? La MN è solo uno strumento utile e una tecnica da dover meticolosamente studiare? E' di fatto una nuova specialità? Solo una moda del momento o un rovesciamento di paradigma tale da dar vita ad una nuova epistemologia? E' senza dubbio difficile poter rispondere in modo chiaro, esauriente e soprattutto coerente. Se vado infatti a spulciare sul web, magari anche sullo stesso sito, compaiono news e articoli molto spesso in contraddizione fra loro in cui  si rileva una continua oscillazione fra la l'esigenza di "regolarizzare" e "uniformare" la competenza narrativa e dall'altra pare di irreggimentarla il meno possibile. In quest'ultima  direzione va l'intervista rilasciata dal professor Antonio Virzì presidente della Società italiana di Medicina Narrativa (7) in cui afferma che alla MN non servono specialisti ma capacità di ascolto e pertanto si dovrebbe più che altro alimentare un movimento culturale che vada in questa direzione...e allora? Poi sorge spontanea, almeno per me, la domanda su come mai si debba registrare la grande assenza della Medicina Generale in tutti questi convegni, in tutte queste occasioni di incontro e di discussioni sulla MN come se fosse un qualcosa che non la riguardi, insomma "roba da addetti al settore"?
A questo punto voglio rispondere da medico di medicina generale o di famiglia come ancora mi piace definirmi e mi si perdonerà qualche tono un po' irriverente, ma mi preme fortemente puntualizzare alcune considerazioni.
Per un medico di famiglia tutto questo clamore sulle narrazioni dei pazienti lascia un po' perplessi in quanto queste narrazioni, queste storie e queste storielle costituiscono da sempre il nostro pane quotidiano. Sono andato a ricercare nella mia biblioteca il "prezioso" volumetto:" Il giudizio clinico in medicina generale" (8) stampato nel luglio 1998, prima di Charon e tanti altri quindi, in cui il primo capitolo è così intitolato: “La medicina generale: la clinica delle storie. L'importanza del raccontare storie in medicina generale". Tutto il capitolo è una serie di racconti di pazienti calati nel setting tipico della MG in cui il primo passo non è quello di capire il  vissuto di un paziente oncologico, di un paziente con deficit cognitivo o portatore di malattia rara, ma di capire perché il paziente ha deciso di venire questa sera da me e che cosa mi vuole significare: un malessere? Una malattia? Un sintomo senza né capo né coda? Un problema di un suo famigliare?   
Il paziente che capita molto spesso non si sente paziente e  nega storie e narrazioni di malattia e pertanto sono completamente d'accordo con Virzì quando afferma che più   di  formare specialisti in medicina narrativa si dovrebbe  favorire le capacità di ascolto da parte dei medici e degli operatori socio-sanitari, favorire una postura, sospendendo, dico io, la  "pretesa" di oggettivare l'incontro di due soggettività, oggettivare cioè la relazione. Credo che si debba lavorare molto proprio su l'importanza e l'inferenza della relazione in senso di co-costruzione del proprio percorso che si fa insieme ad un paziente. Credo infatti che manchi in tanti, proprio in chi è in trincea tutti i giorni, questa consapevolezza e soprattutto se si vorrà aumentare il raggio di azione della medicina generale in senso preventivo e proattivo, questo  della propria consapevolezza e della propria " ecologia"  dovrà essere quasi un imperativo.
Voglio chiudere riportando per intero alcune frasi del sopramenzionato "Il giudizio clinico in medicina generale".
Qualcuno dovesse chiedere di cosa veramente si occupa il medico di medicina generale, gli si potrebbe rispondere che questo tipo di professione cerca, sulla base delle sue conoscenze scientifiche e delle sue competenze professionali, di dare una risposta a coloro i quali, temendo di essere malati, si recano da lui per avere una valutazione competente riguardo alla presenza di malattie e ottenere indicazioni concrete per superare il malessere percepito.....si potrebbe inoltre  spiegare che il medico di medicina generale si dimostra capace di concepire l'infermità che il paziente gli narra proprio grazie al recupero e alla rielaborazione di tutti quegli elementi di conoscenza che medici ospedalieri, specialisti e cliniche universitarie solitamente gettano nel bidone della spazzatura della scienza".





Bibliografia


1) E.Parma : Un ponte tra scienza della natura e scienza umana in " Medicina Generale " a cura di V.Caimi, M.Tombesi, UTET 2003

2) " I Quaderni di Medicina" de Il Sole 24Ore Sanità (Allegato a n.7, 24 feb.-2mar.2015)

3) Ibidem pag 13

4) T.Scarponi: il medico di famiglia cantastorie: la consapevolezza dell'essere per la cura" in Riflessioni Sistemiche n.12 Giugno 2015. Pag 177-178 Website www.aiems.eu

5)  I Quaderni di Medicina" de Il Sole 24Ore Sanità (Allegato a n.7, 24 feb.-2mar.2015) pag 18

6) I.Cavicchi: Il linguaggio della salute. La comunicazione medico-paziente. La questione dei cambiamenti di paradigma in " La professione" trimestrale della Federazione Nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri n. II
anno XVIII- MMXVII

7) Omni-news: Il giornale della medicina narrativa intervista a Antonio Virzì:" Alla medicina narrativa non servono specialisti ma capacità di ascolto" di Viola Rita            8 maggio 2018 website www.omni-web.org

8) di S.Bernabé, F.Benicasa, G. Danti: "Il giudizio clinico in medicina generale " pag XIII XIV,  UTET 1998